mercoledì 12 giugno 2013

«[…] imparare, nonostante le nostre imperfezioni». Per una lettura di Cambiare costa fatica di Salvatore Iermano.

di Giuseppe Varone

Sul numero 14 della rivista deCOMPORRE [marzo 2013] è apparso il testo Cambiare costa fatica di Salvatore Iermano, valente giovane originario di Avellino, da anni alle prese con la sua grande passione: il Teatro. Interesse che lo ha condotto, dopo una lunga serie di esperienze come attore, a Roma, città nella quale attualmente prosegue il suo percorso di formazione con il maestro Diotaiuti.
Il testo, un intenso monologo interiore scritto – non appaia superfluo sottolinearlo – per essere interpretato, penetra con forza la mente del personaggio-voce narrante in un fascio di atti linguistici dinamicamente inseriti nella struttura insieme narrativa e drammaturgica, dosata in un andirivieni consapevole di memoria e realismo, resi velatamente manifesti in due tempi diversi, sapientemente fusi: un tempo per il passato rorido di ricordi e uno per il presente colto nel racconto del dialogo con l’altro da sé.

Entra Renato. È un uomo di mezza età di aspetto distinto, sobrio; una persona che grazie al suo stile di vita ha imparato a saper stare in società e a tenere conversazione sugli argomenti più disparati: dalla letteratura alle scienze, alle arti, alla politica, ai viaggi, alla gastronomia. Entra a passo svelto diretto verso la poltrona.

La poltrona, immobile e vivida nella nostra mente per sveviana avventura, diviene la nobile piattaforma del flusso che, per bocca di Renato ˗ Con crescente tono di sfida, quasi a voler misurare la consistenza dell’interlocutore ˗ si diffonde furiosa nella pagina spossata, fino a che Un buio improvviso chiude la scena.  

Narrazione funambolica e razionale capace di creare percorsi paralleli nella parola, irrorata di rabbia e nostalgia, come pure di melanconica rassegnazione per innata mestizia sopita, in un incrocio sistematico e libero di realtà e finzione. Un cumulo di immagini passate e presenti scovate nell’estensione della rammemorazione, offerta nella sintesi di silhouette ricercate entro e oltre la specifica temporalità del presente continuo del teatro, come pure della fiction cinematografica.

Una ragguardevole prova di scrittura – alla quale è seguita una altrettanto mirabile e arricchente prova attorica, in occasione di un invito ricevuto da Salvatore Iermano dal sottoscritto a interpretarlo per alcuni studenti dell’Istituto statale romano per la Cinematografia e la Televisione –  che s’invera come autentica esperienza di regia, grazie alla cui strategia romanzesca il personaggio dice di sé entro un serrato dialogo con un tu, personificato dallo psicologo artificiosamente silente. Prova nel contempo giovanile e matura, immediata derivazione di letture da Schnitzler e da Svevo, con il fine di rappresentare la realtà attraverso la realtà: quella interiore, inafferrabile e confusa, tanto da generare una ricerca introspettivo-psicologica che non elemosina attracchi alla quotidianità, all’esistente, schiacciante, soffocante e imbrigliante.
Un getto di pensieri e parole mossi da un leggero filo logico-riflessivo, sul quale poggiano percezioni sensoriali e analisi generiche, avvolti e rivolti in direzione di questioni capaci di turbare l’animo dell’io narrante.
Il lettore condivide la citazione, anche se solo evocata, dell’interlocutore ˗ lodevole espediente che, oltre a richiamare modelli letterari, rimanda al gran teatro di Eduardo De Filippo, in special modo per quel che riguarda le scene di Pasquale, nella commedia Questi fantasmi, intento a chiacchierare al balcone con il dirimpettaio Santanna, l’onnipresente e intrigante Professore, "l’anima utile ma che non compare mai", e al quale, tra altre cose, spiegherà come basti poco per essere felici ˗, in sequenze emotivamente incalzanti in grado di procurare un impatto con la parola viva, strumento essenziale per giungere alla più feconda, per quanto misterica, rappresentazione della soggettività. Salvatore Iermano riesce a dare forma a ciò che si estende oltre gli aurei limiti della pagina, atta a contenere le complessità dell’anima, per poi disperderle in uno spazio e in un tempo indefinito. Un’operazione esemplare, giacché latrice di una ricerca linguistica ulteriore, che contempla la sfera del suono e della mimica, giungendo così a incrinare la predominanza del segno: la voce, oltre la pagina, è il vivente, mentre la scrittura permane come sostanza sonora della parola. Parola come abisso, frammento, tormento e passione.

Un’interiorizzazione della parola-anima che produce di riflesso una stereofonia inattesa, con movimenti del corpo allusi e pulsionali, con possibilità di sviluppo ulteriori, innervata e stratificata nel sottosuolo, con relativa cancellazione di ogni spazialità e temporalità, nella prova della durata: la prova della successione degli stati dell’io, nel quale si riflette in divenire la totalità. Nella finzione del monologo si annida il pensiero più vicino all’inconscio e al suo primo manifestarsi, l’azione più prossima al dramma e al suo ultimo razionalizzarsi nel tempo misto della narrazione, precipuo di un racconto non costruito da avvenimenti resi nella loro lineare successione cronologica, bensì inseriti in un’epifania interamente e ineluttabilmente soggettiva, nella quale, per mitopoiesi, si mescolano piani e riducono distanze, in un prolungato intrecciarsi di amare vicende e dolci ubbie.

Un memoriale a tratti sconcertante nella sua schiettezza verosimile; una sorta di coraggiosa e silenziosa autogiustificazione da parte del personaggio, mostrato innocente dinanzi agli altri, ai familiari, scosso da un seppur taciuto senso di colpa afferrabile negli impulsi aggressivi e ostili, in un complesso groviglio di ambigue motivazioni, dichiarate e non. Resa sfuggente, tra conscio e inconscio, dell’impietoso smascheramento di una falsa coscienza resa nuda al cospetto di un tu, invisibile ed essenziale.
Nel testo di Salvatore Iermano diventano rilevanti i temi della vita borghese intesa come trappola, dunque del fallimentare, anche se necessario, tentativo di liberazione dalla maschera sociale e dalle forme che interrompono l’esistenza intesa come continuo divenire, accanto alla crisi di identità dell’uomo moderno, avvicinata in un personaggio che ne conosce diverse senza possederne nessuna.
Un’opportunità per avvicinarsi attraverso il potere creativo della fantasia alle teorie delle alterazioni della personalità e della loro possibile coesistenza di diverse in uno stesso individuo, da cui la conclusione dell’illusorietà della sua unità psichica, oltre che sociale. Persuasione della quale abbiamo una valevole esemplificazione nel personaggio di Renato, sorta di anti-eroe osservato con la lente del sentimento del contrario, nella sua incoerenza di comportamento, avvinto al caos in un intreccio tragicomico. Il personaggio-uomo si sdoppia, auto-imprigionandosi in forme diverse senza realizzare la propria aspirazione alla libertà e riconoscendosi, nell’atto della confessione, privo di soluzioni alternative, costretto alla sola e sterile critica delle costruzioni del vivere altrui.

Un io, dunque, che progressivamente perde la precipua connotazione di soggetto forte e coerente, in grado di poter interpretare la realtà, partecipandovi, con gli schemi della ragione, marcando il tramonto dell’idea dell’individuo artefice del proprio destino. Dalla scrittura giunge l’effluvio del morbo del nostro tempo, ossia la depersonalizzazione, narrata da un punto di vista sostanzialmente parziale e inaffidabile, giacché in grado di esprimere pienamente la relatività del reale. Reale nel quale Renato è l’anima inutile che compare sempre.

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