domenica 9 agosto 2015

BELL’ESTATE E POESIA D’ANGOLO



C’È SEMPRE UN READING IN VETRINA






Le stagioni si alternano, gli anni passano, ma la Poesia resiste e persiste, sia pure in una vetrina secondaria, magari un po’ impolverata. Le basta poco per dare il suo contributo estivo, anche se a un ristretto numero di estimatori; d’altronde qualche curioso sciama sempre dentro e fuori, si ferma per un po’, ascolta, fa spallucce e si allontana, oppure decide di sedersi e di approfondire l’approccio.
L’angolo del poeta è un appuntamento che si rinnova, magari con nuove comparse; ma lo zoccolo duro, la sacra Trimurti è la stessa: Domenico Cipriano (Brahma), abbronzato e ben pasciuto, serafico e sorridente, si prodiga a fare il Mammuccari o il Conte della situazione; Raffaele Barbieri (Siva), divertente e sornione, recita le sue battute con souplesse, saluta e riguadagna la platea. Infine, l’intellettuale Cosimo Caputo (Visnú), dopo diligenti, provvidenziali appunti, arriva alle conclusioni con un profilo critico sulle tendenze dei testi ascoltati; recitati più o meno istrionicamente, con la passione del mandato o la caparbietà della missione, oppure con la torpida quietezza di cadenze piane.
La formula è rapida, semplice: otto poeti si alternano al leggio, declamano o interpretano (con le varie fortune e il dislivello dei talenti espressivi) da quattro a sei testi, ricevono l’applauso di un pubblico alquanto inibito ad intervenire (perché ci pensa il vigile Brahma/Mario Riva a sorvegliare le lancette da ‘Musichiere’), ringraziano con un fil di voce e si riaccomodano, disciplinati. L’effetto è vicino ad un consumismo dell’ascolto sbrigativo, che la fa da Leviatano in tutti i campi, quello della creatività compreso.
Non deploriamo il filo spinato che smorza le indifendibili sbavature di protagonismi debordanti e intempestivi; sovente abbiamo assistito semi-impotenti a sciorinature glossolaliche da caso clinico, o da esempio lampante di ipertrofia dell’io. Ma anche l’estrema severità dei picchetti risulta sgradita, quando un poeta rassomiglia a un manichino con tot minuti dai quali non può sgarrare, pena le occhiatacce di Brahma.
Come di consuetudine, due le serate del reading in onore delle Muse che affiancano Erato sullo sfondo del Parnaso: la prima, lunedi 6 luglio u.s., con Paolo Battista, Domenico Carrara, Carmine De Falco, Loredana Fiore, Carmen Gallo, Antonio V. Guarino, Ketty Martino e Raffaele Schettino (una pouponnière, escludendo gli ultimi due); la seconda, lunedi 27 luglio, con Davide Cuorvo, Francesca De Michele, Rosa Di Zeo, Federica Giordano, Gerardo Iandoli, Costanzo Ioni, Ferdinando Tricarico, Raffaele Urraro.
Al solito, la Trimurti ha bilanciato le voci, tra giovani promesse e vecchie volpi dal pelo ancora lustro: serata interessante e variegata, per stili, tono, capacità di incunearsi nell’attenzione incostante di un pubblico dalle alterne esigenze: divertirsi, cercare di fare il punto nel panorama poetico all’occasione offerto ed esplicitato, compiacere amicizie o conoscenze, dare un senso a quell’ora di capriccio, cacciarsi in un evento che non si capisce bene, limitarsi a sbirciare le… bancarelle della fiera.
L’aspetto positivo di consimili organizzazioni sta nel conoscere e farsi conoscere, nello stabilire contatti nuovi, che potrebbero rivelarsi scambievolmente fruttuosi. I poeti ospiti hanno avuto tutti una micro-occasione di mettere alla prova la personale capacità di presa della parola, anche quando non aiutavano le facoltà performative, ampie e allenate in Costanzo Ioni, Ferdinando Tricarico e Francesca De Michele. Rosa Di Zeo e Raffaele Urraro più classici, composti, quasi ieratica la prima e compassato il secondo; la pertinenza del loro discorso razionale/sinfonico verteva su un controcanto dei misteri della vita sulla soglia di essere e osservare, essere e reagire, poi entrava in scena molto di piú di una verità intrisa di torsione esistenziale: c’era, insomma, il lieve peso aggiuntivo della grazia oltre la grammatica del vedere. Rosa Di Zeo, sacerdotale, ha trovato ‘la via del canto’ ai piedi di una collina scabra, non senza essersi graffiata ai rovi, agli spini delle cospirazioni che le vicende manifeste e sommerse del mondo ‘ottuso e banale’ frappongono alle esplorazioni dei poeti.
Le parole antiche hanno oro brunito, sembra dirci la poesia internamente screziata di Raffaele Urraro, e vanno collocate (e non riposte) sullo scaffale della continua maneggiabilità, della continua riflessione, ben al di là della fragilità delle apparenze e delle insidie di montanti disappartenenze.
Il confronto involontario e improgrammabile fra questi due poeti colti ha dato luogo ad una visione/sensazione di maturità emaciata e non vinta dall’incomprensione e dalle contusioni di una società aggrappata alle miserie e alle crasse meschinità degli adescamenti materiali; i due poeti sono apparsi, essi stessi di questo inconsapevoli, stupefatti della rispettiva duttilità della “parola incolpevole”, e paghi del loro “umile” andare senza retropensiero. Lezione che dovrebbe essere appresa non dai giovani presenti il 27 (Cuorvo, Iandoli), ma da (alcuni di) quelli adunati il sei luglio scorso. Provvisti degli attrezzi tecnici e di qualche stupefacente intuizione, latente o manifesta, ma segnati dal ‘cri du chat’ e da una inaffidabile arroganza. Vaiolo che prima o poi presenterà il suo conto nocivo.
Costanzo Ioni e Ferdinando Tricarico (très cabotin) lavorano con gioia estatica, con atteggiamento goloso dell’estro – cosí ci vien da dire – , nelle rispettive fucine, ove la parola è vetro, gomma, proiettile, stiletto e piuma vellicante; il logos ben si presta al gioco intellettuale che mescola il giullare ilare e satirico, con largo uso di un grammelot ora sontuoso ora perforativo sino all’ansia e all’orgasmo, nel non luogo ove si esplicitano, intimamente avvinghiati, il burlesco e il drammatico, il politico e l’eco di un soliloquio dallo scatto rovente, abrasivo.
Federica Giordano, che nel personale (abbigliamento, trucco, posa) rievocava una dark lady dei film mélo anni cinquanta, molto Calypso e sexy fatale (Lizabeth Scott/Cate Blanchett), a suo agio con una rivoltella in pugno come con un drink o un microfono nei night-club di Chicago o Cincinnati, è giovane fiamma di rango; lo testimoniano un curriculum artis ben sorvegliato, e le sue composizioni versali, dai guizzi inaspettati, le soluzioni ardite, le vibrazioni acustico-emotive che non conoscono improvvise stonature o minimi sfaldamenti. Gemma di “Ifigenia siamo noi” (Scuderi ed.), al pari di (e diversa da) Floriana Coppola, Ketti Martino, Lucianna Argentino, Giovanna Iorio, Vanina Zaccaria.
Davide Cuorvo e Gerardo Iandoli, saldi fabbri di Logopea, uno irruente trituratore di simboli fino a rendere talismano la parola e ad inzuppare il neo-ermetismo di tardo barocco, l’altro dal polso chirurgico e l’occhio dello speziale, del cerusico, a suo agio nella composizione metrica come nella sua apparente eversione, hanno alternato toni, timbri, quantità tesi all’aspirazione a far vivere, nella giustezza e nello sperdimento, nel grido e nella essenza subsegmentale muta, nella partitura assonante e scivolosa, o precipite e densa di inversioni, di iperbati, la loro rispettiva identità (oltre ogni travestimento, consapevole e scanzonato o involontario e struggente) di acrobati delle policrome chiavi di scrittura, nel piacere ustorio e incommensurabile del ‘dono’ da donare.
Infine, ma non certo ultima, la discolaccia, la gigolette e la cercatrice di rayons di margherite stellari Francesca De Michele, spiritosa, eclettica, mobilissima, dalle manine come lanterne sui fogli, dalla bocca antica, disegnata da un levantino che ha appena distolto le erotiche attenzioni da una silfide marmorea in un giardino greco. Questa ragazza piccolina, pronta ad aprirsi grandi varchi e ad occupare spazi maggiori, elargisce un’offensiva generosa e audace contro la sonnolenza della poesia spesso priva di eccitazione e di segnali, che ammorba tanto i raduni leggerecci quanto i salotti demi-littéraires, nella nostra città e un po’ dappertutto. Oppone la freschezza di una ‘finesse’ extasiée et impromptue (c’è del randomico?) che sancisce la predisposizione naturale alla coalizione fra intelletto de-condizionato ed esprit libre quasi ‘barricadero’; la potenza della sua ‘voce’ interna si infittisce, impulsivamente si rarefà, poi presiede in vezzo (ingannevolmente, ripetiamo) fortuito ai viluppi di fantasia aggettante e ragionativa.

                                                                                               ARMANDO SAVERIANO





Da sinistra: Raffaele Urraro,
Davide Cuorvo, Rosa Di Zeo,
Armando Saveriano
Da sinistra: Davide Cuorvo,
Raffaele Barbieri, Gerardo Iandoli,
Rosa Di Zeo, Cosimo Caputo











Da sinistra: Domenico Cipriano,
Rosa Di Zeo, Costanzo Ioni,
Gerardo Iandoli, Ferdinando Tricarico,
Davide Cuorvo, Francesca De Michele,
Federica Giordano
Sulla sedia: Raffaele Urraro



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