martedì 6 maggio 2014

SCHERMOMANIA: L’INGORDIGIA DEL CINEFAGO

La nuova rubrica 
cinematografica di Logopea

2. Maniac
Una poetica sinfonia dell’orrore

( Francia/Usa 2012 – col, 89’) Regia di Franck Khalfoun
Con Elijah Wood, Nora Arnezeder, Megan Duffy, Geneviève Alexandra, Jan Broberg, Liane Balaban, Joshua De la Garza, America Olivo, Sammi Rotibi
Sceneggiatura: Alex Aja, Grégory Levasseur
Prod. Thomas Langmann
Fotografia: Maxime Alexandre
Musiche: Robin Coudert (Rob)

Soltanto pensare a un remake del cult del 1980, firmato da William Lustig e indissolubilmente legato al trucido Joe Spinell, sarebbe stato ritenuto fallimentare azzardo. Già l’ipotesi germinata 32 anni orsono di un sequel, di un Maniac 2, sulla scorta dello strepitoso successo (non solo di cassetta) del film, venne scartata, e fortunatamente. Per cui, progettare un rifacimento sembrava impresa tanto audace quanto utopica.

L’originale del 1980 (oltretutto scopiazzato e saccheggiato innumerevoli volte da mani maldestre) era inarrivabile per gore e substrati psicologici e sociali, per clima e livelli di inquietudine e per effetti di disturbo, non volendo poi tener conto della straordinaria prova attoriale dello sgradevole Spinell, addentro nel ruolo fino al midollo o –avrebbero detto i greci antichi– allo pneuma.
Tuttavia, l’idea di sfidare la “dissennatezza” di un progetto sprecato e perso in partenza solleticava troppo Alex Aja, e di fatto lo ha spinto a far opera (non semplice né immediata) di convincimento presso Thomas Langmann , che infine ha capitolato, dando il là alla produzione.
Il problema di non allontanarsi troppo dalla trama originale e tradire il film realizzando qualcosa di totalmente altro, non faceva che complicare le cose, perché la fedeltà assoluta ammazza dal canto suo il diritto alla creatività, rende l’impresa un atto inutile, crea paragoni sicuramente castiganti per il superfluo clone.

Occorreva pertanto un guizzo di novità, una alternativa non solo accettabile, ma brillante, in linea con il fulcro della vicenda sceneggiata illo tempore da C. A. Rosenberg (con il contributo dello stesso attore protagonista). Quando tale risultato è sembrato essere raggiunto dai talenti di Aja e di Grégory Levasseur, firmatari dello script , si è trattato di individuare il regista giusto.
Ora, Aja e Levasseur avevano già lavorato a un thriller che parlava di psicopatia: “- 2 – Livello del terrore“ (Usa 2007), il quale, nonostante le discrete premesse, non aveva sfondato al botteghino, né attizzato la critica. La regia era stata affidata a un esordiente, Franck Khalfoun, di buona mano e di non scarse intuizioni. Perché non rimetterlo in pista?

E Franck Khalfoun, inizialmente perplesso egli stesso, ha accettato e contro ogni previsione ha operato il miracolo. Perché il suo Maniac ha bucato lo schermo, ha agguantato lo spettatore, gli ha strappato battiti e vellicato l’empatia, ha aperto allo slasher le porte della schifiltosa Cannes, ha indotto a discussione per settimane pubblico e addetti ai lavori.

Due, in sostanza, le innovazioni innestate nel film del 2012: la scelta del protagonista e la soggettiva (dell’assassino) pressoché costante. Affidare ad Elijah Wood il ruolo del feticista psicopatico Frank Zito si è rivelata il gettone vincente: una fisicità inedita, ambigua, adolescenziale (se non fosse per i baffetti spinosi e la barbetta rada), efebica, dominata da occhi innocenti e perforanti, magnetici, dotati della vitrea fissità durante l’accesso implacabile nelle crisi omicide; un’aria di stupefazione quasi asperger, che in particolare nella scena in cui è riflesso sullo specchio al soffitto nell’appartamentino della spiritosa e arrapata RedLucie86 (Megan Duffy) s’intinge di comicità per la paralizzata goffaggine del corpo; una capacità, quella di Wood, di rendere plausibile il conflitto delle personalità attraverso la maschera duale di pena e di odio distruttivo.

L’uso della soggettiva non è una novità, ma “nuovo” è l’azzardo di adoperarla e all’occorrenza abbandonarla inaspettatamente. Il POV non è come manovrare i ferretti per il lavoro a maglia: c’è la difficoltà dell’operatore che agisce alle spalle dell’attore; deve piazzare la telecamera calcolando l’altezza della testa e dello sguardo, inquadrarne le mani, i piedi. Per un risultato ottimale, convincente.

Ma almeno altri due colpi di genio consacrano l’entusiastica affermazione della pellicola: la felice selezione della co-protagonista, Nora Arnezeder, bella senza esagerare, e la svolta melo di una love story delicata in sé e dannata, che strina la pelle allo spettatore e ne stringe di compartecipazione emotiva la gola.

Nora Arnezeder, nel film la fotografa d’arte Anna, raffigura l’antitesi della donna contemporanea aggressiva, vistosa, spregiudicata, all’arrembaggio del maschio, iper-indipendente e prevaricatrice. Arnezeder/Anna ha un volto chiaro e pulito, un sorriso disarmante, aperto allo stupore e all’entusiasmo; crede nell’arte e nella facoltà purificatoria dell’arte. Proprio per questo attira l’attenzione non morbosa e finalizzata al delitto del restauratore di manichini d’epoca, lo schivo Frank Zito, misogino e sessuofobo.

I due diventano amici affiatati. Anna frequenta l’atelier di Zito, racconta di sé, lo coinvolge in una mostra (chiedendo in prestito alcuni dei suoi manichini), esce con lui a passeggio, lo porta a cinema, lo fa sentire accettato e normale. Zito è desideroso di una vita semplice e comune, per la prima volta è attratto da una donna con cui potrebbe avere un rapporto amoroso anche erotico; questo Frank sepolto sotto l’alter ego dello scotennatore di donne prorompenti e sfacciate, il Frank schiacciato da letali implicazioni edipiche, anela a una esistenza lontana dalle sanguinose angosce e dai fantasmi della mente lacerata, si innamora fatalmente di Anna, comincia ad illudersi, scambiando l’amicizia e la simpatia di lei per un analogo, evidente sentimento di corrispondenza. E per un certo periodo smette di uccidere.

Quando però scopre che Anna è fidanzata (benché non idilliacamente) e che, nel corso della mostra fotografica, compare truccata, inedita nel look moderatamente glamour, disinvolta, ammirata dagli astanti, ecco che, con lo strappo della delusione e della gelosia, in lui re-insorge la pulsione omicida (scatenata dall’imago malata di una Anna perversa e lasciva, sovrapposta al ricordo della madre Angela – America Olivo – penetrata da tergo contro un pilone, e il Mostro, ferito dalla Bella, torna a perlustrare, armato di coltello affilatissimo (Frank uccide solo con le lame o a mani nude) le strade popolose o stranianti di Los Angeles (nel lungometraggio dell’ottanta eravamo a New York).
A farne le spese sono la bellissima dancer/atleta Jessica ( Geneviève Alexandra ), bestialmente massacrata a coltellate e scalpata in un parcheggio notturno, e la stessa agente di Anna, la matura e bamboleggiante Rita (Jan Broberg).

Tra deliranti ricordi (una madre ninfomane e prostituta, con una preferenza per le coppie di teppistelli, che si accoppiava davanti al bambino, semmai dirottandolo in un angusto sgabuzzino) e violente crisi di sdoppiamento, la storia si snoda in una sapiente alternanza di squarci crudelissimi (lo strangolamento –che ricorda quello dell’hitchcockiano “Frenzy” – della lolita cresciutella RedLucie86, chattata in un sito di incontri, una Megan Duffy da commedia erotica all’italiana, inguaiata di tatuaggi, che ricorda in malizia autoironica Monica Vitti; l’agguato alla tardona Rita nel suo stesso appartamento, l’unica – gli rammenta più di tutte la madre – ad essere selvaggiamente scalpata, mentre, incaprettata, è ancora viva sul letto/mattatoio a sequenze di puro lirismo che travalicano l’orrore: il bambinetto Frank che pettina i lunghissimi, lucenti capelli della mamma, raro momento di tenerezza e di intesa tra figliolino e dissoluta genitrice; l’anello di fidanzamento porto all’agonizzante Anna; i frammenti della condivisione amicale con costei nel laboratorio di restaura; la scena nel cinema d’essai che proietta Caligaris e l’immagine finale di Frank, finalmente acquietato nel pertugio dove lo relegava Angela, mentre s’intratteneva coi clienti/amanti.
Khalfoun e Wood guidano con eccellenza l’ascensione dell’horror dalla nicchia alla primazia del mainstream, realizzando un capolavoro che si affianca, completandolo, all’originale versione di Lustig.

Maniac riesce dove disgraziatamente fallì, per clamorosa impreparazione di giudizio e/o miopia o perché assai in anticipo sui tempi, il voyeuristico “Peeping Tom” (“L’occhio che uccide”, Gb 1960), di Michael Powell su soggetto e sceneggiatura di Leo Marks, interpretato con mirabile aderenza dal versatile Carl Boehm. Consigliabile la comparazione tra le due edizioni di Maniac e di quest’ultimo chef-d’oeuvre dimenticato dai più, ma ben presente nella memoria dei fans e degli intenditori di buon cinema.


ARMANDO SAVERIANO

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