cinematografica di Logopea
2.
Maniac
Una
poetica sinfonia dell’orrore
(
Francia/Usa 2012 – col, 89’) Regia di Franck Khalfoun
Con
Elijah Wood, Nora Arnezeder, Megan Duffy, Geneviève Alexandra, Jan
Broberg, Liane Balaban, Joshua De la Garza, America Olivo, Sammi
Rotibi
Sceneggiatura:
Alex Aja, Grégory Levasseur
Prod.
Thomas Langmann
Fotografia:
Maxime Alexandre
Musiche:
Robin Coudert (Rob)
Soltanto
pensare a un remake del cult del 1980, firmato da William
Lustig e
indissolubilmente legato al trucido Joe
Spinell, sarebbe stato
ritenuto fallimentare azzardo. Già l’ipotesi germinata 32 anni
orsono di un sequel, di un Maniac 2, sulla scorta dello strepitoso
successo (non solo di cassetta) del film, venne scartata, e
fortunatamente. Per cui, progettare un rifacimento sembrava impresa
tanto audace quanto utopica.
L’originale
del 1980 (oltretutto scopiazzato e saccheggiato innumerevoli volte da
mani maldestre) era inarrivabile per gore
e substrati psicologici e sociali, per clima e livelli di
inquietudine e per effetti di disturbo, non volendo poi tener conto
della straordinaria prova attoriale dello sgradevole Spinell,
addentro nel ruolo fino al midollo o –avrebbero detto i greci
antichi– allo pneuma.
Tuttavia,
l’idea di sfidare la “dissennatezza” di un progetto sprecato e
perso in partenza solleticava troppo Alex
Aja, e di fatto lo ha
spinto a far opera (non semplice né immediata) di convincimento
presso Thomas Langmann
, che infine ha capitolato, dando il là alla produzione.
Il
problema di non allontanarsi troppo dalla trama originale e tradire
il film realizzando qualcosa di totalmente altro,
non faceva che complicare le cose, perché la fedeltà assoluta
ammazza dal canto suo il diritto alla creatività, rende l’impresa
un atto inutile, crea paragoni sicuramente castiganti per il
superfluo clone.
Occorreva
pertanto un guizzo di novità, una alternativa non solo accettabile,
ma brillante, in linea con il fulcro della vicenda sceneggiata illo
tempore da C.
A. Rosenberg (con il
contributo dello stesso attore protagonista). Quando tale risultato è
sembrato essere raggiunto dai talenti di Aja e di Grégory
Levasseur, firmatari
dello script
, si è trattato di individuare il regista giusto.
Ora,
Aja e Levasseur avevano già lavorato a un thriller che parlava di
psicopatia: “- 2 –
Livello del terrore“
(Usa 2007), il quale, nonostante le discrete premesse, non aveva
sfondato al botteghino, né attizzato la critica. La regia era stata
affidata a un esordiente, Franck
Khalfoun, di buona
mano e di non scarse intuizioni. Perché non rimetterlo in pista?
E
Franck Khalfoun, inizialmente perplesso egli stesso, ha accettato e
contro ogni previsione ha operato il miracolo. Perché il suo Maniac
ha bucato lo schermo,
ha agguantato lo spettatore, gli ha strappato battiti e vellicato
l’empatia, ha aperto allo slasher
le porte della
schifiltosa Cannes,
ha indotto a discussione per settimane pubblico e addetti ai lavori.
Due,
in sostanza, le innovazioni innestate nel film del 2012: la scelta
del protagonista e la soggettiva (dell’assassino) pressoché
costante. Affidare ad Elijah
Wood il ruolo del
feticista psicopatico Frank Zito si è rivelata il gettone vincente:
una fisicità inedita, ambigua, adolescenziale (se non fosse per i
baffetti spinosi e la barbetta rada), efebica, dominata da occhi
innocenti e perforanti, magnetici, dotati della vitrea fissità
durante l’accesso implacabile nelle crisi omicide; un’aria di
stupefazione quasi asperger,
che in particolare nella scena in cui è riflesso sullo specchio al
soffitto nell’appartamentino della spiritosa e arrapata RedLucie86
(Megan Duffy)
s’intinge di comicità per la paralizzata goffaggine del corpo; una
capacità, quella di Wood, di rendere plausibile il conflitto delle
personalità attraverso la maschera duale di pena e di odio
distruttivo.
L’uso
della soggettiva non è una novità, ma “nuovo” è l’azzardo di
adoperarla e all’occorrenza abbandonarla inaspettatamente. Il POV
non è come manovrare i ferretti per il lavoro a maglia: c’è la
difficoltà dell’operatore che agisce alle spalle dell’attore;
deve piazzare la telecamera calcolando l’altezza della testa e
dello sguardo, inquadrarne le mani, i piedi. Per un risultato
ottimale, convincente.
Ma
almeno altri due colpi di genio consacrano l’entusiastica
affermazione della pellicola: la felice selezione della
co-protagonista, Nora
Arnezeder, bella senza
esagerare, e la svolta melo di una love story delicata in sé e
dannata, che strina la pelle allo spettatore e ne stringe di
compartecipazione emotiva la gola.
Nora
Arnezeder, nel film la fotografa d’arte Anna, raffigura l’antitesi
della donna contemporanea aggressiva, vistosa, spregiudicata,
all’arrembaggio del maschio, iper-indipendente e prevaricatrice.
Arnezeder/Anna ha un volto chiaro e pulito, un sorriso disarmante,
aperto allo stupore e all’entusiasmo; crede nell’arte e nella
facoltà purificatoria dell’arte. Proprio per questo attira
l’attenzione non morbosa e finalizzata al delitto del restauratore
di manichini d’epoca, lo schivo Frank Zito, misogino e sessuofobo.
I
due diventano amici affiatati. Anna frequenta l’atelier di Zito,
racconta di sé, lo coinvolge in una mostra (chiedendo in prestito
alcuni dei suoi manichini), esce con lui a passeggio, lo porta a
cinema, lo fa sentire accettato e normale. Zito è desideroso di una
vita semplice e comune, per la prima volta è attratto da una donna
con cui potrebbe avere un rapporto amoroso anche erotico; questo
Frank sepolto sotto l’alter ego dello scotennatore di donne
prorompenti e sfacciate, il Frank schiacciato da letali implicazioni
edipiche, anela a una esistenza lontana dalle sanguinose angosce e
dai fantasmi della mente lacerata, si innamora fatalmente di Anna,
comincia ad illudersi, scambiando l’amicizia e la simpatia di lei
per un analogo, evidente sentimento di corrispondenza. E per un certo
periodo smette di uccidere.
Quando
però scopre che Anna è fidanzata (benché non idilliacamente) e
che, nel corso della mostra fotografica, compare truccata, inedita
nel look moderatamente glamour, disinvolta, ammirata dagli astanti,
ecco che, con lo strappo della delusione e della gelosia, in lui
re-insorge la pulsione omicida (scatenata dall’imago
malata di una Anna
perversa e lasciva, sovrapposta al ricordo della madre Angela –
America Olivo –
penetrata da tergo contro un pilone, e il Mostro, ferito dalla
Bella, torna a perlustrare, armato di coltello affilatissimo (Frank
uccide solo con
le lame o a mani nude) le strade popolose o stranianti di Los Angeles
(nel lungometraggio dell’ottanta eravamo a New York).
A
farne le spese sono la bellissima dancer/atleta Jessica ( Geneviève
Alexandra ),
bestialmente massacrata a coltellate e scalpata in un parcheggio
notturno, e la stessa agente di Anna, la matura e bamboleggiante Rita
(Jan Broberg).
Tra deliranti ricordi (una madre
ninfomane e prostituta, con una preferenza per le coppie di
teppistelli, che si accoppiava davanti al bambino, semmai
dirottandolo in un angusto sgabuzzino) e violente crisi di
sdoppiamento, la storia si snoda in una sapiente alternanza di
squarci crudelissimi (lo strangolamento –che ricorda quello
dell’hitchcockiano “Frenzy”
– della lolita cresciutella RedLucie86, chattata in un sito di
incontri, una Megan Duffy da commedia erotica all’italiana,
inguaiata di tatuaggi, che ricorda in malizia autoironica Monica
Vitti; l’agguato alla tardona Rita nel suo stesso appartamento,
l’unica – gli rammenta più di tutte la madre – ad essere
selvaggiamente scalpata, mentre, incaprettata, è ancora viva sul
letto/mattatoio a sequenze di puro lirismo che travalicano l’orrore:
il bambinetto Frank che pettina i lunghissimi, lucenti capelli della
mamma, raro momento di tenerezza e di intesa tra figliolino e
dissoluta genitrice; l’anello di fidanzamento porto all’agonizzante
Anna; i frammenti della condivisione amicale con costei nel
laboratorio di restaura; la scena nel cinema d’essai che proietta
Caligaris e
l’immagine finale di Frank, finalmente acquietato nel pertugio dove
lo relegava Angela, mentre s’intratteneva coi clienti/amanti.
Khalfoun
e Wood guidano con eccellenza l’ascensione dell’horror dalla
nicchia alla
primazia del mainstream,
realizzando un capolavoro che si affianca, completandolo,
all’originale versione di Lustig.
Maniac
riesce dove
disgraziatamente fallì, per clamorosa impreparazione di giudizio e/o
miopia o perché assai in anticipo sui tempi, il voyeuristico
“Peeping Tom”
(“L’occhio che uccide”, Gb 1960), di Michael
Powell su soggetto e
sceneggiatura di Leo
Marks, interpretato
con mirabile aderenza dal versatile Carl
Boehm. Consigliabile
la comparazione tra le due edizioni di Maniac e di quest’ultimo
chef-d’oeuvre dimenticato
dai più, ma ben
presente nella memoria dei fans e degli intenditori di buon cinema.
ARMANDO
SAVERIANO
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